mercoledì 18 ottobre 2006

Polvere

Il corso pomeridiano di restauro stava ormai per terminare e la vecchia e tarlata pendola a muro aveva incontestabilmente vinto a mani basse la sua disfida personale contro il pregiato comodino Luigi XIV, il quale, pur essendo un arredo di squisita fattura nonché oggetto della lezione del giorno, non riusciva ad assorbire che una frazione trascurabile dell'interezza dell'attenzione che il movimento lento e polveroso delle lancette dell'orologio aveva ipnoticamente esatto dalla classe stanca e tormentata da numerose cefalee a grappolo. L'unico allievo che continuava a concentrarsi con dedizione certosina sugli incastri a coda di rondine della preziosa suppellettile sedeva naturalmente in prima fila e prendeva febbrilmente delle note su un elegante taccuino di cuoio rilegato, sul quale, di tanto in tanto, non disdegnava di tracciare degli schizzi che ritraevano con fedeltà sorprendente ora l'intarsio di un piede, ora il piano di una mensola, ora un pomello di un cassetto.

Allorché la pendola batté stancamente le sette, con riflesso felino la classe si alzò come un sol uomo e scattò verso la porta farfugliando indistinte e poco convinte parole di saluto all'indirizzo della piacente insegnante. Solo l'uomo in prima fila si mosse con lassitudine, chiudendo con cura il taccuino e raccattando i ventisette fogli dattiloscritti che contenevano un dettagliato resoconto della ricerca iconografica da lui condotta a proposito degli arredi letto Luigi XIV. La giovane precettrice gli rivolse un'occhiata piena di ammirazione ed orgoglio, come solo le donne zitelle, senza figli e alle porte della menopausa sanno fare, o forse invece uno di quegli sguardi che sussurrano di candele, di lenzuola, di sudore e di carni maneggiate, e a volte anche di lattice, manette e altri gadget di poliedrica applicabilità... uno di quegli sguardi che solo le donne zitelle, senza figli e alle porte della menopausa sanno rivolgere.

L'uomo già aveva raccolto tutte le sue carabattole e si dirigeva verso l'uscita dall'aula vuota. L'insegnante (la quale, a titolo di cronaca, aveva quarantasei anni, era nubile, non aveva mai generato creatura e aveva cominciato ad avvertire negli ultimi tempi delle strane vampate di calore) lo intercettò con una manovra da cacciatorpediniere e gli posò delicatamente la mano curata sulla manica del paltò.
— Va già via? — sussurrò melliflua.
— Purtroppo il dovere mi chiama — disse l'uomo guardandola dal fondo di due occhi colmi di un'infinita stanchezza.
— A quest'ora?
— Non esiste ora per chi serve la Giustizia.
L'uomo crollò il capo, lo scosse dolcemente e si allontanò con delicatezza dalla suadente signora mentre questa lasciava scivolare le dita della sua mano sulla flanella del cappotto.
— Ma la vedrò a lezione la settimana prossima?
— Senza dubbio.
— Si ricordi delle tavole...
— Certamente.
— Se ha bisogno di un consiglio...
— La chiamerò volentieri.
— Allora buona serata...
— Buonasera.
— ...a mercoledì...
— ...
— ...tenente Tenebra.

domenica 28 maggio 2006

Il risveglio

Quando Bemolle riaprì gli occhi, tutto ciò che vide fu dell'intenso, vellutato colore nero. "Oh great, sono finito di nuovo nel carburatore della Y10", pensò con insopportabile autocommiserazione. Immediatamente, però, si accorse che non c'era il solito odore di benzina senza piombo, né i suoi arti sembravano essere costretti in pochi centimetri cubici; anzi, a mano a mano che i suoi plessi nervosi periferici abbandonavano la letargia che li aveva colti quand'era caduto come corpo morto cade, Bemolle prese gradualmente coscienza del fatto di giacere prono, a quattro di bastoni, su una superficie umida, dura e che sapeva di mattonella.

Con grande fatica, ma anche con grande soddisfazione (perché ogni cosa che costa grande sforzo, sudore, lacrime e, talvolta, sangue, se portata a compimento con successo, o almeno evitando tragici fallimenti, fornisce enorme gratificazione a colui – o colei – che, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l'acqua perigliosa e guata; oggi, insomma, è proprio giorno di citazioni dantesche), Bemolle raccolse le sue esigue forze e assunse finalmente una postura più degna dell'attributo di "bipede" conferito da svariate enciclopedie, siti web e altri Greatest Hits dello scibile umano, al genere Homo Sapiens Sapiens. Compito a casa per il lettore diligente: analisi logica e analisi del periodo di questo paragrafo.

Insomma, Bemolle: non perdiamo di vista il nostro gaio protagonista, mentre controlla l'integrità delle principali articolazioni del suo apparato locomotore. Ma com'è che si è ritrovato faccia a terra, nel suo vicolo, a pochi passi dalla sua tenda? Bemolle non rammentava nulla del suo trapasso. L'ultimo ricordo che conservava era l'odore della sua flatulenza frammisto a quello di trielina, e poi si era ritrovato con gli incisivi nel porfido. Che gli stesse tornando quella dannata narcolessia isterica? Eppure credeva di essersene liberato per sempre, grazie a quella formidabile dieta del peperoncino che aveva trovato su Donna Moderna... una vera panacea. Ma, evidentemente, non era bastata. Rassegnato, estrasse l'ennesimo jalapeño dalla tasca, lo addentò con determinazione e, masticando e lacrimando, si diresse verso la sua tenda, deciso a trascorrere almeno qualche ora sì privo di sensi, ma non a diretto contatto con il marciapiede.

Fu solo mentre apriva la lampo che si accorse dello scubidù per terra.

mercoledì 10 maggio 2006

La chiamata / 2

— Cosa fai qui? — chiese Bemolle.
L'uomo annuì con condiscendenza, protese le labbra con l'aria di chi avrebbe troppe cose da raccontare ma non il tempo per farlo e infine indicò lo scubidù, seguito dallo sguardo di Bemolle.
— Uno scubidù qui? Davanti alla mia tenda? Ah, aspetta... mi pare di riconoscerti! Ci siamo incontrati alla manifestazione della settimana scorsa, no? Mi devi scusare ma non ricordo il tuo nome... com'era, com'era?

La voce dell'uomo aveva qualcosa di ancestrale.
— Io ho molti nomi. Sono qui perché anche tu possa finalmente averne uno.

Bemolle tremò, per la seconda volta nel corso della serata. Aveva la spiacevole sensazione che la voce dell'uomo non fosse un suono, ma che risuonasse direttamente nella sua mente, senza dover passare la tediosa trafila laringe -> vibrazione -> onda -> timpano -> orecchio interno -> cervello. Per quanto la cosa potesse sembrare comoda, Bemolle era un tradizionalista. La novità della cosa lo metteva visibilmente a disagio.
— Ma io ce l'ho già un nome... Mi chiamo Bemolle. — fece con voce tremante, protendendo perfino timidamente la destra verso lo sconosciuto — Immaginavo che non te ne ricordassi neanche tu, d'altra parte ci siamo a stento presentati...
— Caro il mio Bemoccolo, ti parlo di un nome che ti sopravviverà. Un nome antico come i deserti e mutevole come le nuvole, un nome che ti scorrerà addosso e ti impregnerà con la sua immanenza — e poi, dopo una pausa a effetto, aggiunse — Un nome da profeta.
— Un profeta... io?
— Tu sei stato scelto.
Bemolle cadde in ginocchio. Le lacrime sgorgavano copiose.
— Ma chi sei?... chi sei?
— Sono venuto per portarti via. Io sono il Kwisatz.

sabato 6 maggio 2006

La chiamata / 1

Dopo un'intera giornata passata a inseguire tovaglioli portati via dal vento, persino una mente congenitamente vessata e sottomessa come quella di Bemolle cominciava a mostrare i primi segni di cedimento, come attacchi fulminanti di nevralgia del trigemino, sporadici episodi di onicofagia acuta e un aumento misurabile della frequenza di scaccolamento. Come ogni giovedì sera, poi, si era fatto incastrare dai suoi vecchi amici del circolo di manomissione cancelli e aveva passato un paio di orette in compagnia di diverse paia di ascelle sudate, nascosto in un sottoscala ad aspettare che quei testardi operai della FAAC si rassegnassero all'apparente evidenza che la cellula fotoelettrica avesse trovato il modo di secernere spontaneamente frappè all'amarena. Ma nemmeno simili goliardie erano riuscite a distrarlo dalla vacuità del dì appena trascorso, neanche l'ottusità dei due muscolosi manovali, incapaci di accorgersi dell'inquietante verità gnoseologica a cui la secrezione zuccherina alludeva. Anzi, ciò che una volta lo avrebbe fatto sorridere ora gli procurava soltanto un fastidioso prurito.

Fu pertanto in questo umore spleen che Bemolle aprì la lampo della canadese quadriposto e si accomiatò dalla festosa compagnia che celebrava la felice riuscita dell'ennesimo atto di disobbedienza civile. I suoi piedi scalzi percepirono il freddo e l'umido del marciapiede, i capelli sulla nuca gli si rizzarono per lo sbalzo di temparatura e un brivido gli corse lungo la schiena, la gamba destra, il piede e di nuovo la gamba per poi attraversargli la vescica e arrestarsi in corrispondenza della sua maniglia dell'amore sinistra. I suoi occhi si stavano ormai abituando all'oscurità e poteva già distinguere la luce delle stelle e l'ombra netta proiettata dalla costellazione del Cucchiaio a Vapore, che lo avrebbe guidato senza fallo alla sicurtà del suo accogliente iglù da campeggio e al rassicurante ronzio del traliccio Ferdinando. In quanti dolci sonni si era lasciato cullare dal suo traliccio protettore! Bemolle sentiva davvero che era diventato impossibile farne a meno, che aveva ormai sviluppato una completa assuefazione alle sue frequenze acustiche. Peraltro, era in qualche modo sicuro che anche il traliccio provasse sentimenti simili verso di lui.

Bemolle giunse nei pressi della tenda quando ormai già si intravedevano le prime luci dell'alba. A circa dieci passi si fermò, fece una scorreggia, fischiettò le prime note di "Minor Swing" e subito si accorse che c'era qualcosa che non andava. Il vicolo era stranamente silenzioso, l'odore di trielina era più intenso e, tra l'altro, aveva dimenticato i pantaloni alla festa; ma, soprattutto, c'era un uomo calvo, di carnagione scura, che sedeva a gambe raccolte accanto alla tenda mentre intrecciava con nonchalance uno scubidù. Indossava semplicemente una maglietta e dei pantaloncini, i cui colori sarebbero ben descritti come l'equivalente cromatico di un gatto col mal di pancia che miagola mentre raspa freneticamente con le quattro zampe su una lavagna.

Bemolle fece tre passi avanti e l'uomo finalmente lo notò, volse lo sguardo su di lui e con maestosa lentezza si erse in tutta la sua modesta statura.