mercoledì 28 gennaio 2009

Preso in castagna

Eleganti piramidi di mele renette, maestose sventagliate di carciofi, cespuglietti odorosi di prezzemolo e aneto, parate di lucide melanzane, bouquet di champignon, batterie di pere, cascate di spinaci, cataste di carote, e poi pomodori passati a specchio, patate ben lavate, mandarini, peperoni, zucche, zucchine, ravanelli, rape, finocchi, lattuga e qualche avocado; gli affreschi ortofrutticoli delle bancarelle dei mercati parigini si contendono avidamente l'interesse dell'ozioso passeggiatore. Monsieur Bueren, in particolare, andava particolarmente fiero della sua opera. Ogni fine settimana si chiudeva in camera e progettava maestose cattedrali di banane, rotonde di verdure da zuppa, mosaici di agrumi o altri capolavori di architettura da bancarella; Pomme-tzamparc, lo chiamavano amabilmente i suoi colleghi.

Per quel lunedì Monsieur Bueren aveva preparato una riproduzione de "La Vergine delle rocce", il suo quadro preferito dai tempi in cui la mamma lo portava al Louvre nelle domeniche d'estate per approfittare della frescura degli antichi marmi. Il suo furgoncino era parcheggiato poco distante; il vero inverno non era ancora cominciato ma, nella brina di quella levata antelucana, Monsieur Bueren considerò quest'evidenza astronomica come una trascurabile capziosità, ripensò nostalgico alla canicola museale della sua infanzia e si strinse infreddolito nel paltò.

Nondimeno, egli sapeva che era la stagione ideale per rendere i colori d'autunno del quadro di Leonardo con la tinta screziata delle castagne; pregustando compiaciuto la meraviglia dei colleghi e lo sbalordimento dei clienti, il fruttivendolo mise in moto con qualche difficoltà il furgoncino addormentato, scivolò nel traffico diluito del primissimo mattino e diresse il veicolo alla volta dei mercati generali.

Al furgoncino piaceva molto fare il carico di cocomeri (d'estate) e di castagne (d'inverno); impaziente come un bambino la notte di Natale, aveva vissuto tutta l'attesa in uno stato di irrequietezza: ora ribaltava un sedile, ora batticchiava nervosamente il parasole, ora si mordeva i dischi dei freni. Si addormentò spossato più tardi del solito e non si accorse del figuro che si introdusse clandestinamente nel vano merci. Il mattino dopo, parcheggiato sulla corsia d'emergenza di un boulevard périphérique ancora deserto, il furgoncino realizzò con disappunto che il carico di castagne era rimandato a data imprecisata quando vide l'intruso uccidere a sangue freddo Monsieur Bueren alla luce lampeggiante delle quattro frecce.

venerdì 12 settembre 2008

La Missione

- La prego, si accomodi pure, Tenebra. (indica una sedia libera)
- La ringrazio, Signore, ma sul serio avrei…
- Whisky?
- Non posso, Signore, sono in servizio. (si siede)
- Già, anche io. Un sigaro?
- No guardi, davvero, non fumo. E poi ci sarebbero di là delle pers..
- Ascolti, Tenebra. Lei mi piace.
- Anche lei è un bell’uomo, Signore.
(senza scomporsi)
- Grazie Tenebra, ma lei sa bene che odio le adulazioni. (si alza per chiudere la porta)
- …
- (sussurrando) Il falco è uscito dal nido, Tenebra!
- Signore?
- (la voce si assottiglia sempre di più) Il pifferaio ha aperto la cesta! Capisce?
- Signore, non la seguo.
(senza alterare il tono di voce)
- Tenebra! Cristo santo! (urlando) Ma li legge i giornali?
- Non ritengo sia il caso di invocare la Trinità, Signore.
- Lo è eccome, Tenebra! (esaltato) Dia retta a me, stavolta lo prendiamo!
- Vuole affidarmi un nuovo caso, Signore? Mi permetta di argomentarle che qui al dipartim…
- Fa dell’umorismo, Tenebra?
- Si immagini, Signore. Sa bene che prendo il mio lavoro molto seriamente.
- Bravo Tenebra! Allora si sieda e apra bene le orecchie!
- Sono già seduto, Signore.
- Niente giochetti con me, Tenebra. Si alzi e si risieda se questo la fa sentire più a suo agio!
- …
- E ora ascolti. Le offro l’occasione della sua vita. Una porta che conduce ad una nuova vita. La possibilità di sottrarsi finalmente allo stringente giogo del destino che, amaro, ha indurito la sua anima e il suo cuore. Lei non vivrà più nel rimpianto e nel rimorso, Tenebra.
- Signore, io vivo solo per combattere il crimine.
- Stronzate, Tenebra! (batte i pugni sul tavolo) Lei vuole farmi credere di essere guidato da alti ideali ma l’uomo, per sua natura, è e sarà sempre schiavo delle sue passioni e dei suoi vizi! Passioni e vizi che guidano l’uomo sulla strada che soddisfa il proprio ego. E lei, Tenebra, ha un ego smisurato.
- Il mio ego si soddisfa con la giustizia, Signore.
- Ed è giustizia che il le offro, Tenebra! Implacabile, perentoria, sempiterna giustizia!
- …
- …e un volo per Parigi!
- Un pensiero squisito, Signore. Ma non credo che in questo momento andare in vacanza sia la soluzione ideale. Non esiste vacanza per chi combatte il crimine.
- Sono di tutt’altro avviso, Tenebra. Ma non è di vacanza che stiamo parlando. Io voglio che lei vada a Parigi per mettere la parola fine ad una storia che va avanti da troppo tempo. Voglio che lei vada lì, come un ufficiale qualunque, che si integri con la popolazione locale, che mangi la baguette, passeggiando per i vicoli di Montmartre quando il sole tramonta dietro la Défense. Un pittore dipinge il suo amore su una tela bianca, rimirando in lontananza la Senna che descrive le sue anse tra la città che dorme…
-
(si schiarisce la gola)
- Non interrompa, Tenebra. Sono nel pieno di una reminescenza.
- Mi scusi, Signore.
- Di nulla, Tenebra. Dunque Parigi, la baguette, Montmartre, la Dèfense, la Senna, bla bla bla, e da lì lei sferrerà il suo attacco, Tenebra!
- Signore?
(alzandosi in piedi)
- Lei farà giustizia, Tenebra. (fa una pausa) È tornato.
(lascia cadere un oggetto sul tavolo)
- Uno scubidù…

sabato 14 giugno 2008

Esercizio di stile

L'autobus della linea S, che collega regolarmente il Parc Monceau e la Porte de Champerret, era affollato come al solito. Mancavano pochi minuti a mezzogiorno e, nonostante la canicola estiva, la gente si pressava con ostinazione nel ventre del mezzo. Un giovane dal collo lungo e scarno si reggeva scomodamente alla porta d'uscita con una mano, mentre l'altra mano agitava l'aria satura con un curioso copricapo viola a tesa larga e cinto di un'insolita cordicella (anziché di un nastro, come si converrebbe).

Bemolle, da par suo, spingeva strenuamente con il braccio destro contro l'acciaio dell'autobus per evitare un'ulteriore, probabilmente fatale, compressione della sua gracile cassa toracica, mentre con la mano sinistra si concedeva di scaccolarsi con strafottenza. Al tempo stesso, in un virtuosistico esercizio di multitasking tipico della sua personalità poliedrica, si trastullava con un calcolo alla Fermi della quantità di sudore che traspirava dalle pelli dei viaggiatori per unità di tempo e di superficie. La sua fermata era ormai passata da un pezzo ma, come abbiamo visto, egli era per il momento dedito a faccende dagli esiti potenzialmente ben più esiziali di un trascurabile ritardo nello svolgimento dei suoi progetti immanenti.

Se dunque persino la concentrazione unwavering di uno stoico pensatore come Bemolle fu disturbata dagli strepiti gallinacei del giovane col cappello, si possono trarre immediate conclusioni sulla portata della causa di tale commozione. Difatti, di lì a poco apparve chiaro a tutti gli astanti che il ragazzo accusava un altro passeggero di pestargli i piedi apposta ogni volta che si apriva la porta di uscita e la gente si spintonava per emergere dal veicolo; e se ne lagnava in un registro insopportabilmente acuto della gamma di frequenze accessibile alla laringe umana.

« In sterquilino pullus gallinaceus dum quaerit escam, margaritam repperit », recitò Bemolle tra sé e sé; ma mal gliene incolse. Il posto a sedere accanto a lui si liberava appena e già il polliforme passeggero vi si gettava a corpo morto, senza concedere diritto di replica all'altro viaggiatore e soprattutto senza accorgersi dell'unremarkable presence di Bemolle; e di questo, in tutta onestà, non si sa se gliene si può fare una colpa. Bemolle fu raggiunto da una subitanea ginocchiata alla tempia e perse immediatamente i sensi, ma ciò non compromise la sua postura eretta fintanto che la densità di corpi all'interno dell'automezzo non scese al di sotto di una soglia critica che nessuno conosce con esattezza ma che gli esperti stimano essere compresa tra 3.3 e 3.9 persone/m².

Quando Bemolle riprese i sensi, l'autobus semivuoto transitava pigramente nei pressi della Gare St-Lazare. Bemolle prese mentalmente nota della pressione insistita esercitata dalla filettatura di una grossa vite sulle sue gengive e della spacevolezza della sensazione che ciò gli procurava, risolvendosi con decisione ad evitare il ripetersi della circostanza. A mano a mano che egli riprendeva possesso e controllo delle sue cagionevoli membra, la sua quota rispetto al pianale dell'autobus aumentava, e nel giro di poche decine di minuti, Bemolle ebbe finalmente la possibilità di sostituire al monotono abbacinamento del cielo parigino una più edificante visione della Cour de Rome; e fu lì che egli riconobbe il ragazzo dal cappello bizzarro, a passeggio con un amico che gli elargiva saccenti consigli sul posizionamento dei bottoni della di lui mantella.

Fantasmi

— Desidera qualcos'altro, monsieur tenònte? – interloquì l'affabile commesso con un impercettibile cadenza gallica.
Un altrettanto impercettibile cenno della fronte espresse chiaramente le volontà del gendarme che rapidamente si allontanò dal baracchino del fruttivendolo all'angolo tra Avenue de Villiers e Place du Maréchal Juin. Numerosi passanti si accalcavano sotto una pensilina, sia per proteggersi dai dannosi raggi U.V. che per attendere uno dei numerosi autobus che a quell'ora instancabili servivano i parigini negli spostamenti pre-prandiali.
Solo un uomo, diversamente dalla folla, sostava appoggiandosi elegantemente alla palina che contraddistingueva la fermata, non disdegnando di concedere qualche morso alla succosa Golden Delicious recentemente acquistata.
Dicono che sia difficile trovare dei momenti di calma in una metropoli tentacolare come Parigi, ma il tenente Tenebra aveva evidentemente saputo fiutare il delizioso tracciato per una perfetta pausa pranzo già dopo pochi mesi che si era trasferito nella capitale francese.

All'arrivo dell'autobus della linea S, Tenebra fu uno dei primi a lasciare l'impronta di una nuova scarpa sui putridi scalini della vettura, non riuscendo tuttavia a fare un solo passo di più. Senza perdersi d'animo, e a dispetto della insopportabile calura estiva, si strinse nell'inseparabile impermeabile, con la faccia premuta contro il vetro della porta centrale, e attese serenamente che il mezzo pubblico lo conducesse nelle adiacenze di Parc Monceau.
Pur essendo poche le fermate che lo separavano dal luogo che gli avrebbe presto donato intimità e relax, l'ufficiale non poté esimersi dal tenere ben desta la sua attenzione sulle molteplici realtà circostanti. Una di queste aveva luogo nella sua stessa scatola cranica e gli snocciolava per l'ennesima volta un dettagliato resoconto degli eventi che l'avevano portato a spostarsi così tanto da quelle quattro sudice mura che costituivano la sua alcova; più ci ripensava e più il suo animo indagatore si meravigliava dinnanzi all'epocale alone di incertezza che in maniera alquanto imbarazzante circondava i recenti avvenimenti di cronaca locale. Perso in maniera irreparabile nel flusso di pensieri coscienti che lo travolgeva stesso all'interno del proprio io, “Le reinard” (appellativo che si era già guadagnato presso la caserma di Boulevard Pereire) non si fece per nulla infastidire dagli schiamazzi che riecheggiavano all'interno della vettura e che avevano per protagonista, nonché fonte sonora, uno strambo personaggio oviforme che platealmente sottolineava con ampi gesti delle braccia le invettive lanciate a carico di un non meglio identificato bersaglio.

Quando il conducente dell'autobus, con una discutibile manovra, decise di eccedere nell'applicazione di una pressione sul pedale del freno, qualcosa riportò la mente del gendarme di nuovo saldamente piantata negli istanti attuali. Uno sparuto gruppo di persone abbandonava i seggiolini di plastica per dirigersi verso l'uscita mentre un altro gruppo, stranamente composto da un numero superiore di individui, lottava con le unghie e con i denti per accaparrarsi forse l'ultima possibilità di dare tregua alle membra affaticate dalla posizione eretta.
Un giovane piccolo uomo, allentando la solida presa che lo teneva incollato all'acciaio dei sostegni, manifestò timidamente l'intenzione di conquistare uno degli agognati posti a sedere ma fu istantaneamente e violentemente raggiunto dallo stesso tizio protagonista del precedente baccano.
Ebbro delle memorie e dell'esperienza che tanti anni nell'arma gli avevano gentilmente donato, Tenebra riconobbe repentinamente in quel gesto qualcosa di diverso dalla semplice ricerca del posto a sedere; qualcosa che solo chi ha visto più e più volte il crimine negli occhi, chi ha giocato almeno in un'occasione a dadi col destino, può così subitaneamente riconoscere.
Il piccolo uomo, dall'aria chiaramente confusa e stordita, mosse un incerto passo verso il sedile mentre già la sua tempia rispettava l'appuntamento con una decisa ginocchiata; e mollemente si accasciò al suolo.
Con decisione, il tenente avanzò tra la folla verso il luogo del misfatto ma l'autobus già si accingeva a riprendere la sua corsa; quando finalmente poté vedere il volto del proprietario del ginocchio dolorifero, ritirò all'istante la mano che già si era infilata nell'impermeabile e stringeva il calcio della pistola. Conosceva quell'uomo. Ma mai credeva che avrebbe potuto trovarlo lì, su un anonimo autobus in pieno centro di Parigi, mentre intercettava con una manovra da manuale un tipetto innocuo che sembrava uscito da un libro fantasy.
Decise con risoluta freddezza che avrebbe aspettato ancora qualche istante, coperto dalla sudata folla, per essere certo di non essere caduto in uno dei tranelli della sua prolifica immaginazione. Il malvivente si era calato sul corpo dell'ometto e, mascherando il gesto col quale rovistava rapidamente nelle tasche di costui, lo mise goffamente a sedere nel posto rimasto libero.

A poche fermate da Gare St-Lazare, una cospicua percentuale dei passeggeri a bordo dell'automezzo si spostò verso le uscite e si liberò della disgustosa atmosfera palustre che si era ivi creata, lasciando poche accaldate persone ad accompagnare l'autista verso l'ultima fermata di quella corsa; tra queste, l'indefesso ufficiale ebbe premura di occupare una posizione di vantaggio nei confronti dei suoi interessati mettendosi alle loro spalle.
Prima di giungere a destinazione, il tenente Tenebra avanzò sicuro verso il sedile dove l'ometto giaceva esanime e rapido poggiò la stanca mano sulla spalla del vicino passeggero; quando questi si girò, il gendarme poté leggere nei suoi vili occhi il terrore e la consapevolezza di chi si trova di nuovo faccia a faccia col passato.
— Ci incontriamo di nuovo, Arturo... — esordì la voce profonda di Tenebra.

mercoledì 18 ottobre 2006

Polvere

Il corso pomeridiano di restauro stava ormai per terminare e la vecchia e tarlata pendola a muro aveva incontestabilmente vinto a mani basse la sua disfida personale contro il pregiato comodino Luigi XIV, il quale, pur essendo un arredo di squisita fattura nonché oggetto della lezione del giorno, non riusciva ad assorbire che una frazione trascurabile dell'interezza dell'attenzione che il movimento lento e polveroso delle lancette dell'orologio aveva ipnoticamente esatto dalla classe stanca e tormentata da numerose cefalee a grappolo. L'unico allievo che continuava a concentrarsi con dedizione certosina sugli incastri a coda di rondine della preziosa suppellettile sedeva naturalmente in prima fila e prendeva febbrilmente delle note su un elegante taccuino di cuoio rilegato, sul quale, di tanto in tanto, non disdegnava di tracciare degli schizzi che ritraevano con fedeltà sorprendente ora l'intarsio di un piede, ora il piano di una mensola, ora un pomello di un cassetto.

Allorché la pendola batté stancamente le sette, con riflesso felino la classe si alzò come un sol uomo e scattò verso la porta farfugliando indistinte e poco convinte parole di saluto all'indirizzo della piacente insegnante. Solo l'uomo in prima fila si mosse con lassitudine, chiudendo con cura il taccuino e raccattando i ventisette fogli dattiloscritti che contenevano un dettagliato resoconto della ricerca iconografica da lui condotta a proposito degli arredi letto Luigi XIV. La giovane precettrice gli rivolse un'occhiata piena di ammirazione ed orgoglio, come solo le donne zitelle, senza figli e alle porte della menopausa sanno fare, o forse invece uno di quegli sguardi che sussurrano di candele, di lenzuola, di sudore e di carni maneggiate, e a volte anche di lattice, manette e altri gadget di poliedrica applicabilità... uno di quegli sguardi che solo le donne zitelle, senza figli e alle porte della menopausa sanno rivolgere.

L'uomo già aveva raccolto tutte le sue carabattole e si dirigeva verso l'uscita dall'aula vuota. L'insegnante (la quale, a titolo di cronaca, aveva quarantasei anni, era nubile, non aveva mai generato creatura e aveva cominciato ad avvertire negli ultimi tempi delle strane vampate di calore) lo intercettò con una manovra da cacciatorpediniere e gli posò delicatamente la mano curata sulla manica del paltò.
— Va già via? — sussurrò melliflua.
— Purtroppo il dovere mi chiama — disse l'uomo guardandola dal fondo di due occhi colmi di un'infinita stanchezza.
— A quest'ora?
— Non esiste ora per chi serve la Giustizia.
L'uomo crollò il capo, lo scosse dolcemente e si allontanò con delicatezza dalla suadente signora mentre questa lasciava scivolare le dita della sua mano sulla flanella del cappotto.
— Ma la vedrò a lezione la settimana prossima?
— Senza dubbio.
— Si ricordi delle tavole...
— Certamente.
— Se ha bisogno di un consiglio...
— La chiamerò volentieri.
— Allora buona serata...
— Buonasera.
— ...a mercoledì...
— ...
— ...tenente Tenebra.

domenica 28 maggio 2006

Il risveglio

Quando Bemolle riaprì gli occhi, tutto ciò che vide fu dell'intenso, vellutato colore nero. "Oh great, sono finito di nuovo nel carburatore della Y10", pensò con insopportabile autocommiserazione. Immediatamente, però, si accorse che non c'era il solito odore di benzina senza piombo, né i suoi arti sembravano essere costretti in pochi centimetri cubici; anzi, a mano a mano che i suoi plessi nervosi periferici abbandonavano la letargia che li aveva colti quand'era caduto come corpo morto cade, Bemolle prese gradualmente coscienza del fatto di giacere prono, a quattro di bastoni, su una superficie umida, dura e che sapeva di mattonella.

Con grande fatica, ma anche con grande soddisfazione (perché ogni cosa che costa grande sforzo, sudore, lacrime e, talvolta, sangue, se portata a compimento con successo, o almeno evitando tragici fallimenti, fornisce enorme gratificazione a colui – o colei – che, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l'acqua perigliosa e guata; oggi, insomma, è proprio giorno di citazioni dantesche), Bemolle raccolse le sue esigue forze e assunse finalmente una postura più degna dell'attributo di "bipede" conferito da svariate enciclopedie, siti web e altri Greatest Hits dello scibile umano, al genere Homo Sapiens Sapiens. Compito a casa per il lettore diligente: analisi logica e analisi del periodo di questo paragrafo.

Insomma, Bemolle: non perdiamo di vista il nostro gaio protagonista, mentre controlla l'integrità delle principali articolazioni del suo apparato locomotore. Ma com'è che si è ritrovato faccia a terra, nel suo vicolo, a pochi passi dalla sua tenda? Bemolle non rammentava nulla del suo trapasso. L'ultimo ricordo che conservava era l'odore della sua flatulenza frammisto a quello di trielina, e poi si era ritrovato con gli incisivi nel porfido. Che gli stesse tornando quella dannata narcolessia isterica? Eppure credeva di essersene liberato per sempre, grazie a quella formidabile dieta del peperoncino che aveva trovato su Donna Moderna... una vera panacea. Ma, evidentemente, non era bastata. Rassegnato, estrasse l'ennesimo jalapeño dalla tasca, lo addentò con determinazione e, masticando e lacrimando, si diresse verso la sua tenda, deciso a trascorrere almeno qualche ora sì privo di sensi, ma non a diretto contatto con il marciapiede.

Fu solo mentre apriva la lampo che si accorse dello scubidù per terra.

mercoledì 10 maggio 2006

La chiamata / 2

— Cosa fai qui? — chiese Bemolle.
L'uomo annuì con condiscendenza, protese le labbra con l'aria di chi avrebbe troppe cose da raccontare ma non il tempo per farlo e infine indicò lo scubidù, seguito dallo sguardo di Bemolle.
— Uno scubidù qui? Davanti alla mia tenda? Ah, aspetta... mi pare di riconoscerti! Ci siamo incontrati alla manifestazione della settimana scorsa, no? Mi devi scusare ma non ricordo il tuo nome... com'era, com'era?

La voce dell'uomo aveva qualcosa di ancestrale.
— Io ho molti nomi. Sono qui perché anche tu possa finalmente averne uno.

Bemolle tremò, per la seconda volta nel corso della serata. Aveva la spiacevole sensazione che la voce dell'uomo non fosse un suono, ma che risuonasse direttamente nella sua mente, senza dover passare la tediosa trafila laringe -> vibrazione -> onda -> timpano -> orecchio interno -> cervello. Per quanto la cosa potesse sembrare comoda, Bemolle era un tradizionalista. La novità della cosa lo metteva visibilmente a disagio.
— Ma io ce l'ho già un nome... Mi chiamo Bemolle. — fece con voce tremante, protendendo perfino timidamente la destra verso lo sconosciuto — Immaginavo che non te ne ricordassi neanche tu, d'altra parte ci siamo a stento presentati...
— Caro il mio Bemoccolo, ti parlo di un nome che ti sopravviverà. Un nome antico come i deserti e mutevole come le nuvole, un nome che ti scorrerà addosso e ti impregnerà con la sua immanenza — e poi, dopo una pausa a effetto, aggiunse — Un nome da profeta.
— Un profeta... io?
— Tu sei stato scelto.
Bemolle cadde in ginocchio. Le lacrime sgorgavano copiose.
— Ma chi sei?... chi sei?
— Sono venuto per portarti via. Io sono il Kwisatz.